Ferrari: quando la Borsa confonde il mito con una startup
Ricavi e utili in crescita, ma non abbastanza per Wall Street. Maranello paga l’effetto “realismo”: il mercato voleva un sogno, non una strategia.
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Rosso Ferrari: in pista è un colore che infiamma, in Borsa, invece, può bruciare… Ieri le azioni di Ferrari N.V. hanno chiuso con un tonfo del -15,4%, a 354 euro, dopo aver toccato punte di -16% nel corso della giornata. Il motivo? Il nuovo piano industriale al 2030 – complice anche la nuova Ferrari elettrica – presentato a Maranello, non ha convinto gli investitori. Non per i numeri – in realtà solidi e persino prudenti – ma per la mancata promessa di una “crescita a tutta velocità”. Il paradosso perfetto per un marchio costruito sulle prestazioni assolute: una Ferrari che, per la prima volta, sceglie di rallentare.
Il piano (troppo) prudente della Ferrari
I numeri sono scolpiti nella presentazione finanziaria:
- Ricavi a 9 miliardi nel 2030
- Ebit (utile operativo) a 2,75 miliardi
- Marginalità al 30%
- Utile per azione a 11,5 euro
Risultati solidi, ma con una crescita media annua del +6%. Un segnale di “raffreddamento” che i mercati hanno interpretato come fine della corsa. Gli analisti di New York e Milano si aspettavano un piano più audace: nuovi modelli, margini in espansione, magari un messaggio più aggressivo sull’elettrificazione. Invece, da Maranello è arrivato un messaggio diverso: stabilità, controllo, continuità. E per la Borsa, che vive di sogni e proiezioni, la parola “continuità” è quasi una frenata d’emergenza.
Il peso delle aspettative
Ferrari ha abituato gli investitori a una performance da primato. Dal debutto in Borsa nel 2015, il titolo ha guadagnato oltre +1.600%, arrivando a una capitalizzazione di 76 miliardi di euro: più di Volkswagen, che produce 8 milioni di auto l’anno. Ma la magia di Maranello è sempre stata questa: far rendere ogni cavallo più del precedente.
Il problema è che, a un certo punto, anche la perfezione diventa un limite. Chi compra Ferrari in Borsa non compra solo un titolo: compra un mito che deve correre sempre più veloce del suo stesso mito. E quando il mito decide di rallentare, anche solo per non uscire di pista, la reazione è inevitabile.
La giornata del crollo
Ieri il titolo ha aperto in leggero calo (-0,2%), poi è crollato fino a -16% nel pomeriggio. Gli investitori hanno venduto in massa: chi aveva accumulato profitti negli anni è passato all’incasso, mentre gli speculatori di breve periodo hanno approfittato della caduta per guadagnare sul ribasso. Eppure, come spesso accade con i titoli ad alto valore simbolico, non è cambiato nulla nei fondamentali. Ferrari continua a macinare utili, flussi di cassa, buy-back e dividendi record (7 miliardi complessivi al 2030). Il rosso in Borsa, quindi, è più un riflesso emotivo che industriale.
Per gli investitori il sogno era una Ferrari da 10% di crescita annua, una Ferrari che spinge sull’elettrico come una startup e che poteva far tremare Tesla. Invece è arrivata una Ferrari zen, consapevole dei propri limiti e del proprio DNA: meno espansione, più perfezione. E la perfezione non fa rumore, soprattutto nei listini di Wall Street.
Oltre la speculazione
Ferrari non è – e non è mai stata – un’azienda automobilistica in senso stretto. Sergio Marchionne aveva sottolineato che: “Ferrari è unica e non risponde ai criteri di valutazione di nessun’altra impresa.” Trattarla come un titolo del lusso è un errore di prospettiva e il crollo delle azioni è solo il fallimento di una fantasia collettiva: quella che anche la Ferrari debba comportarsi come una startup in crescita infinita.
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