Auto cinesi in Europa, Bruno Mafrici: no scorciatoie, serve etica industriale
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Con una nota pubblicata nei giorni scorsi sui suoi canali ufficiali, Bruno Mafrici — CEO di Car Mobility, noto per aver guidato il lancio dei marchi VOYAH, MHERO e BOX per Dongfeng in Italia — ha ufficializzato la fine della collaborazione con il partner industriale cinese. Il messaggio, dai toni misurati ma inequivocabili, segna un punto di svolta in quella che, fino a pochi mesi fa, sembrava una delle operazioni più promettenti nel settore automotive europeo.
“Negli ultimi mesi, ho assistito con profonda amarezza a un’evoluzione dei rapporti che ritengo lesiva non solo della fiducia professionale riposta, ma anche del lavoro costruito con dedizione in questi anni”, ha scritto Mafrici nel post, condividendo con la sua community di professionisti e appassionati la delusione per quanto avvenuto. Il riferimento è al tentativo — secondo quanto emerge dalla ricostruzione del manager — di costituire, da parte di soggetti legati a Dongfeng, una nuova realtà parallela in Italia, svuotando di fatto l’infrastruttura e il know-how creati da DF Italia e da Car Mobility. Con una critica neanche troppo velata alla sottrazione delle risorse umane, dei collaboratori, delle relazioni di filiera e persino degli asset comunicativi, il comunicato segna una frattura significativa.
Dietro questa vicenda non c’è solo una questione di rapporti interni o di strategie divergenti: c’è un’intera visione industriale che rischia di essere messa in discussione. E il caso Mafrici-Dongfeng diventa quasi paradigmatico delle difficoltà che molti costruttori extraeuropei incontrano nel cercare di entrare in un mercato notoriamente difficile, frammentato, culturalmente sofisticato e regolato da standard tecnico-commerciali elevatissimi.
“Sotto il profilo della distribuzione, dell’assistenza e della reputazione del brand — ha dichiarato Mafrici in una nostra conversazione successiva al comunicato — l’Europa non è un contenitore da riempire con automobili. È un ecosistema che va capito, servito, rispettato. Pensare di poter replicare, senza esperienza né radicamento, quanto costruito da chi ha investito in modo responsabile, è un errore strategico.”
Il contesto in cui tutto ciò avviene è tutt’altro che stabile. Dopo la fiammata cinese degli ultimi due anni, con l’arrivo sul mercato europeo di BYD, MG, Aiways, Nio e proprio Dongfeng, la stagione dell’entusiasmo sembra dare spazio a un ritorno alla realtà. Le istituzioni europee si stanno muovendo verso una regolazione più stretta del dumping industriale, valutando dazi e ostacoli normativi proprio contro chi esporta a basso costo senza fornire adeguati servizi post-vendita. Alcuni analisti parlano già di “bolla asiatica” destinata a sgonfiarsi in parte. E nel frattempo, le grandi case occidentali — da Volkswagen a Stellantis, da Renault a Volvo — tornano a presidiare il mercato con strategie raffinate, fondendo elettrico, ibrido e motori termici in nuovi mix produttivi, sempre più legati ai bisogni reali degli utenti.
In questo scenario, le nuove strutture messe in piedi dalle aziende automobilistiche cinesi in Italia soffrirebbero le difficoltà dovute ai ritardi nella fornitura dei pezzi di ricambio, scarsa assistenza tecnica e una rete commerciale incapace di garantire continuità. E ciò, in un settore in cui il valore aggiunto si gioca ormai tutto nel post-vendita, può significare la differenza tra il successo e il fallimento.
A chi gli chiede se intenda aprire una battaglia legale, Mafrici risponde con una classe che nasconde però una fermezza intransigente: “Il mio intervento è stato un atto dovuto. Non posso tacere davanti a una vicenda che, oltre al mio nome, coinvolge persone, investimenti, famiglie. Il mio senso di responsabilità mi impone di raccontare ciò che è accaduto, senza alzare i toni ma senza fingere che vada tutto bene.”
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