Il SUV di cui non hai mai sentito parlare: un po' italiano, tedesco e giapponese

Tutto sul Bertone Freeclimber: la storia, le caratteristiche, i motori BMW e il valore attuale del raro SUV nato dalla collaborazione tra Italia, Giappone e Germania

Di Fabrizio Caratani
Pubblicato il 8 ago 2025
Il SUV di cui non hai mai sentito parlare: un po' italiano, tedesco e giapponese

Nel panorama automobilistico di fine anni Ottanta, un progetto ha saputo incarnare come pochi altri il valore della collaborazione internazionale: la Bertone Freeclimber. Questo veicolo, nato dalla sinergia tra tre nazioni con tradizioni motoristiche differenti, ha rappresentato un audace esperimento di contaminazione tecnica e stilistica, segnando una pagina originale nella storia dei SUV di lusso. La sua nascita nel 1989 non fu un semplice esercizio di stile, ma il risultato di una visione capace di anticipare le tendenze future, unendo solidità, eleganza e innovazione.

Tutto ebbe inizio quando la storica coachbuilder torinese Bertone decise di mettere mano al robusto Daihatsu Rugger, noto anche come Rocky. La base giapponese, famosa per la sua affidabilità e per le doti da vero fuoristrada, fu il punto di partenza di un processo di trasformazione che avrebbe dato vita a un modello capace di distinguersi nel crescente segmento dei veicoli a trazione integrale di fascia alta. L’idea di fondo era chiara: fondere l’efficienza nipponica con la raffinatezza italiana e la potenza teutonica.

Estetica particolare e motori BMW

Il risultato fu una vettura che, pur mantenendo l’ossatura originale, venne profondamente rivista sia all’esterno che negli interni. La carrozzeria, pur restando fedele alle linee squadrate tipiche dei fuoristrada dell’epoca, venne arricchita da una calandra ridisegnata con quattro fari, un dettaglio distintivo che sottolineava la nuova identità della Bertone Freeclimber. Ma fu all’interno che il salto qualitativo si fece più evidente: sedili in pelle chiara, plancia arricchita da strumentazione Veglia e numerosi badge Bertone disseminati nell’abitacolo, a rimarcare la distanza rispetto alla versione standard Daihatsu.

Il vero colpo di genio, però, fu la scelta dei propulsori. Invece dei motori originali giapponesi, la Bertone Freeclimber venne equipaggiata con i raffinati motori BMW, un elemento che elevò immediatamente il posizionamento del modello. La gamma prevedeva tre varianti: un 2.0 benzina da 129 CV, un 2.4 diesel da 114 CV e un 2.7 benzina sempre da 129 CV, tutti abbinati a un cambio manuale a cinque marce e alla trazione integrale inseribile con riduttore. Una soluzione tecnica che garantiva prestazioni di livello e un piacere di guida superiore rispetto alla concorrenza.

Oggi non ha un gran valore

Tra il 1989 e il 1992, la produzione della Bertone Freeclimber si attestò intorno ai 2.800 esemplari, un numero che oggi contribuisce a renderla un vero e proprio oggetto del desiderio per collezionisti e appassionati. Le quotazioni, secondo Classic.com, si aggirano mediamente sui 6.500 dollari, rendendo questo SUV un’occasione relativamente accessibile per chi cerca un veicolo dal fascino retrò e dalla storia unica. Rarissimi, invece, furono gli esemplari destinati direttamente al mercato statunitense, oggi ancora più ambiti per la loro esclusività.

Il 1992 segnò l’arrivo della seconda serie, la Freeclimber II, sviluppata su una versione aggiornata del Rocky. Le novità principali riguardavano dimensioni più compatte, una calandra nera e gruppi ottici posteriori rivisitati, elementi che conferivano un aspetto ancora più moderno e personale. La motorizzazione, in questo caso, fu limitata a un solo propulsore: un quattro cilindri BMW da 1.6 litri e 99 CV. Tuttavia, la produzione di questa seconda generazione durò appena un anno, aumentando ulteriormente la rarità di questi esemplari sul mercato dell’usato.

Oggi, la Bertone Freeclimber resta un simbolo di visione creativa e di coraggio industriale, un veicolo che ha saputo anticipare la futura popolarità dei SUV di lusso. La sua storia dimostra come la contaminazione tra culture tecniche diverse possa dare vita a prodotti capaci di lasciare un segno indelebile. Non solo un fuoristrada, ma un manifesto della capacità italiana di reinterpretare e valorizzare ciò che di meglio offre l’industria automobilistica mondiale. Un capitolo che merita di essere riscoperto e apprezzato, non solo dagli addetti ai lavori, ma da chiunque ami le auto che hanno saputo rompere gli schemi e guardare oltre i confini.

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